Quanto al decisione dell’avvocato di rinunciare ad un ricorso, scendo qui di seguito ad illustrarne brevemente le ragioni, dovendo necessariamente contestualizzarne i motivi nella seguente premessa.
L’avvocato ha l’obbligo di difendere gli interessi del Cliente nel miglior modo possibile e deve comunicare alla parte assistita la necessità del compimento di determinanti atti, al fine di evitare – tra gli altri – effetti pregiudizievoli relativamente all’incarico affidato.
Previa adeguata informazione da parte del Cliente sulle circostanze di fatto inerenti la questione in esame, l’avvocato deve – secondo scienza (Legge, Dottrina e Prassi) e coscienza (possibilità di perseguire l’interesse del Cliente al di fuori del ricorso all’Autorità Giudiziaria) – consigliare il proprio Assistito sull’opportunità/necessità di promuovere un’azione giudiziaria ovvero di astenersene, a seconda che, ad un giudizio prognostico, l’esito della causa gli appaia rispettivamente favorevole o infausto.
Laddove l’avvocato esprima parere favorevole, Egli riceve dal Cliente il mandato “ad litem”.
Successivamente all’instaurazione del Giudizio, l’avvocato – senza ritardo – deve altresì comunicare al proprio Cliente ogni notizia utile alla protezione dei suoi interessi; tra queste, egli deve soprattutto esprimere le proprie osservazioni e valutazioni circa il contenuto degli atti che la Controparte deposita a propria difesa.
Gli atti e i documenti di Controparte introducono elementi di conoscenza – di fatto e di diritto – nuovi e diversi rispetto a quelli prospettati dal proprio Cliente.
In altre parole, l’avvocato ha l’obbligo di difendere la Parte e, conseguentemente, di prospettare al Giudice una “rappresentazione di Parte” ma, come qualsiasi professionista, egli ha anche l’onere di criticare, vagliare, sottoporre continuamente ad esame il proprio operato, al fine di verificare se la tesi che ha introdotto nel Giudizio sia o meno, alla luce della difesa avversaria, giuridicamente fondata.
Può accadere che l’avvocato, a seguito di una critica onesta del proprio lavoro, riscontri che – dalla lettura degli atti depositati da Controparte – si profili l’eventualità che la domanda del proprio Cliente venga respinta.
E’ infatti frequente che – seppure abbia consigliato al proprio Cliente di promuovere una causa giudiziaria – l’avvocato si accorga, dall’esame delle difese avversarie, che emerge la probabilità – o, quanto meno, la possibilità – che esse vengano giudicate dal Magistrato di pregio giuridico maggiore rispetto a quello sotteso alle difese che Egli ha prospettato al Giudice.
Ciò può accadere in tre casi:
a) quando vi è contrasto giurisprudenziale sulla questione dedotta in giudizio (la Corte di Cassazione ha emesso sentenze discordanti sul medesimo caso);
b) quanto il Cliente ha taciuto all’avvocato elementi di fatto rilevanti ai fini del decidere;
c) quando la fattispecie è chiara e l’avvocato non ha prestato adeguata attenzione all’indirizzo giurisprudenziale prevalente o all’interpretazione di una norma giuridica;
Con cautela, accertata la non manifesta infondatezza della tesi avversaria nel caso a) (probabilità che la tesi avversaria venga preferita alla propria) l’avvocato dovrà domandarsi quale possa essere l’esito della domanda del proprio Cliente e, ragionevolmente, potrà anche decidere di proseguire nel giudizio e “rischiare” di “perdere il processo”.
Con ragione, accertata la fondatezza della tesi avversaria (ovvero la concreta possibilità che essa sia giudicata fondata dal Magistrato), l’avvocato potrà 1) perseverare nel giudizio, con il rischio di soccombenza e condanna del proprio Cliente al pagamento delle spese legali; 2) consigliare al proprio Cliente di rinunciare alla domanda, al fine di “limitare i danni”.
Per parte mia, non mi permetto di giudicare le strategie di alcuni professionisti che decidono in ogni caso di procedere nel Giudizio e nemmeno mi azzardo a giudicare la condotta dell’avvocato che, a fronte della assai probabile soccombenza del proprio Cliente, persegua il Giudizio, nella piena consapevolezza delle ragioni della Controparte.
E’ accaduto che, pur avendo compreso la fondatezza delle ragioni della Controparte, il Professionista abbia evitato di comunicare la circostanza al proprio Cliente e, al momento del deposito della sentenza, abbia giustificato la soccombenza adducendo l’impreparazione del Magistrato o abbia sottoposto al proprio Assistito, con linguaggio tratto dal più becero “legalese”, inestricabili motivazioni di ardua decifrazione.
Lascio ad altri giudicare se, nell’ambito della professione forense, l’aneddoto che ho riportato costituisca la rappresentazione di una fattispecie di pura fantasia ovvero di casi isolati ovvero di prassi diffuse.
Per parte mia, ritengo che, riconosciuta la concreta possibilità che la domanda del Cliente sia respinta, per l’avvocato non sussista altra opzione che 1) informare il Cliente della possibilità dell’esito infausto della causa, anteponendo dunque l’interesse dell’Assistito al proprio orgoglio; 2) escogitare, nell’interesse del Cliente, la soluzione migliore per limitare le conseguenze di danno derivanti dalla fragilità della propria difesa.
Se è vero – come è vero quantomeno per il sottoscritto e per la maggior parte dei Colleghi – che l’avvocato ha l’obbligo di comunicare alla parte assistita la necessità del compimento di determinanti atti, al fine di evitare effetti pregiudizievoli relativamente agli incarichi in corso di trattazione, è di conseguenza che l’avvocato possa adempiere all’obbligo di informazione solo quando sia in condizione di formarsi un convincimento circa gli effetti pregiudizievoli gravanti sul proprio Assistito.
Nel caso di specie, con mail del 3 dicembre 2010, l’avvocato informava il cliente di avere ricevuto dal Collega di Bergamo – sempre il 3 dicembre 2010 – la comparsa con la quale si era costituito il resistente.
Proseguiva precisando che resistente chiedeva la reiezione della domanda, sul presunto difetto di giurisdizione del Giudice Ordinario in favore dell’Autorità Amministrativa e, comunque, per nullità dell’atto per difetto d’agire dell’Organo che lo aveva sottoscritto.
Precisava che non era in grado di esprimere un parere sulle difese avversarie, poiché si riferivano all’interpretazione di norme giuridiche sulle quali gli era necessario un’approfondita ricerca.
Si riservava di tenere aggiornato il Cliente.
A questo punto, l’avvocato precisava che la comparsa di costituzione e risposta del resistente gli era stata trasmessa via fax dal Collega di Bergamo soltanto in data 3 dicembre 2010 nonostante fosse stata depositata in Cancelleria in data 15 novembre 2013 e supponeva che il ritardo fosse forse dipeso dalla prassi radicata presso il Tribunale di Bergamo, ove – come sempre precisatogli dal Collega domiciliatario di Bergamo – la copia dell’atto riservato alla Controparte non viene depositata nel fascicolo d’Ufficio ma, ricevuto il timbro di deposito presso la Cancelleria, è invece inserita in un’apposita “casella scambio atti” ove, alla data del 16 novembre 2010 (data successiva al termine di scadenza per la costituzione di Controparte), il Collega di Bergamo riferiva che nulla era stato depositato.
Nelle giornate del 3, 4, 5 e 6 dicembre 2010, il Patrono procedeva all’esame delle norme giuridiche e delle motivazioni sottese alla sentenze citate dal difensore del resistente e si formava il convincimento che, due dei tre motivi addotti dal Collega fossero fondati ed assorbenti ai fini del decidere.
Ciò premesso, in data 3 dicembre 2010, l’avvocato informava via mail il Cliente che il resistente si era costituito e aveva chiesto che le domande introduttive fossero respinte e, nella stessa mail, precisava di non essere in grado di esprimere una valutazione sulla non manifesta infondatezza/fondatezza di quelle difese (se fosse stato in grado alla semplice lettura di prima mano, lo sarebbe stato anche allorquando depositava il ricorso e avrebbe invece consigliato di non procedere giudiziariamente); in pari data – e nelle giornate immediatamente successive – esaminava e studiava quelle difese; il lunedì successivo, primo giorno lavorativo utile, comunicava al Cliente il mio punto di vista.
E, con ciò facendo, informava la Cliente della necessità di rinunciare al ricorso, al fine di evitare gli effetti pregiudizievoli conseguenti alla soccombenza, precisando che la rinuncia al ricorso non avrebbe comportato alcuna rinuncia al diritto che, sussistendone i presupposti, sarebbe potuto essere nuovamente azionato a ministero di nuovo procuratore.
L’avvocato riteneva che, pur vero che la Cliente mai lo aveva informato di avere ricevuto la notificazione della dichiarazione di pubblica utilità del terreno e dunque l’inizio del procedimento espropriativo, ciò nondimeno avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione ai presupposti che avevano necessariamente portato all’”accordo bonario di cessione” di cui aveva chiesto esecuzione ex art. 2932 c.c.
In conclusione, il consiglio dell’avvocato di rinunciare al ricorso riposava sul convincimento cui era giunto ad esito dell’esame della difesa avversaria, circa la concreta possibilità che il Magistrato non accogliesse la domanda e condannasse anzi il Cliente al pagamento delle spese processuali; tanta cautela nasceva probabilmente da personale inclinazione professionale che, per quanto all’ambito della difesa giudiziale, lo induceva a consigliere di agire o di resistere solo laddove fosse emersa la forte probabilità di vittoria.
Mentre lascio ad altri valutare se, nell’ambito della professione forense, l’aneddoto che ho raccontato – circa l’avvocato che, prima, nasconda al proprio Cliente la concreta possibilità della soccombenza, che, poi, “perda la causa “ con formazione del Giudicato in danno del proprio Assistito (al quale sarà inibita la facoltà di rivolgersi nuovamente al Giudice), che, infine, assista con cinismo alla condanna dello stesso al pagamento delle spese – costituisca la rappresentazione di una fattispecie di pura fantasia ovvero di casi isolati ovvero di prassi diffuse, sicuramente posso affermare che è prassi assai infrequente – anzi isolata – che il Professionista si assuma personalmente la responsabilità di un proprio errore di valutazione, in misura superiore alla mera perdita del Cliente e alla cattiva immagine che da essa ne consegue.
L’avvocato si spinse infatti ben al di là della richiesta di chiarimenti formulata dal Cliente e gli comunicava di volersi assumere personalmente la responsabilità delle conseguenze derivanti dalla (presunta) fondatezza della difesa avversaria e dalla conseguente sua scelta di non coltivare il presente ricorso, rendendosi disponibile a restituire integralmente gli acconti percepiti nonché a rifondere le spese legali che il Procuratore del avrebbe da lì a qualche giorno quantificato.

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